Weedy Point ti illustra come la sua super pianta possa avere grandissimi benefici per contrastare e rallentare malattie come la demenza e l’Alzheimer.
La cannabis, esercita un effetto sul sistema nervoso, agisce legandosi ai nostri recettori per gli endocannabinoidi, cioè a recettori a cui si legano sostanze endogene che entrano in gioco in meccanismi di segnalazione cellulare e che sembrano esercitare un’azione protettiva nei confronti dei danni infiammatori della β-amiloide.
La marijuana, o meglio il suo principio attivo, il CBD, quando assunta si lega a questi recettori per gli endocannabinoidi. Quale ruolo giochi esattamente l’accumulo di β-amiloide nello sviluppo della malattia di Alzheimer non è ancora completamente chiaro. Sia perché si accumula β-amiloide anche nel normale invecchiamento (senza alcuna malattia di Alzheimer), sia perché tutti i farmaci anti-β-amiloide che si stanno testando non sembrano in grado in maniera conclusiva di arrestare il decadimento cognitivo della malattia di Alzheimer.
Alcuni ritengono che siano i meccanismi infiammatori auto-immuni connessi all’accumulo di β-amiloide a giocare il ruolo più rilevante nella malattia. Proprio per questo appare promettente lo studio, in quanto suggerisce una doppia azione: rimuovere gli accumuli e prevenire la morte cellulare in conseguenza dei processi infiammatori.
Studi da più fronti ormai indicano che è sempre più importante affrontare molto precocemente una “neuro-protezione” piuttosto che cercare solo di contrastare i fenomeni neurodegenerativi dell’Alzheimer quando esso è già in fase avanzata. D’altra parte, il fenomeno dell’accumulo di β-amiloide è qualcosa che inizia molti anni prima dell’esordio dei sintomi dell’Alzheimer.
Quello che appare suggestivo che anche l’esercizio fisico aumenta la liberazione dei nostri endocannabinoidi. Come è noto, studi epidemiologici e di laboratorio hanno ormai consolidato la conoscenza che un costante esercizio fisico possa esercitare un ruolo neuroprotettivo per l’Alzheimer.
Siamo in presenza di una svolta decisiva nella ricerca per un trattamento o prevenzione dell’Alzheimer. La risposta è probabilmente “No”. Come nel caso dei disturbi del sonno o di alcune specifiche manifestazioni del sonno (i cosiddetti “complessi K”) che possono agire da marcatori precoci dell’Alzheimer, siamo in presenza solo di un piccolo passo nella ricerca dei meccanismi e dei possibili trattamenti. Dobbiamo convivere con questo.
Abituandoci a considerare ogni singola ricerca non come una “soluzione finale”, ma come un ulteriore e promettente passo nella direzione auspicata. La malattia di Alzheimer rappresenta uno dei principali problemi per la salute pubblica e una delle malattie dai più elevati costi sociali. Anche come semplice conseguenza (non solo) dell’aumentata durata della vita media, i dati di prevalenza della malattia aumenteranno ancora nei prossimi anni. Anche con questo dovremo convivere.
Anche per questo dobbiamo chiedere che gli investimenti nella Ricerca siano sempre più adeguati, al passo con l’aumentata diffusione della malattia. E abituarci sempre più a pensare alla “protezione” dalla malattia piuttosto che solo al “trattamento” della malattia.
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